Si stanno rubando l'Africa

Che questo avrebbe potuto essere un anno politicamente intenso per l'Africa lo si era cominciato a capire alla fine dell'anno scorso. Poco prima di Natale, la Francia aveva dichiarato tutto il suo supporto ad Alassane Ouattara, il politico della Costa d'Avorio che, dopo essere stato ingiustamente escluso dalle presidenziali del 2000, era riuscito a vincere quelle del 2010 e ottenere il riconoscimento delle Nazioni Unite, ma non a varcare la soglia del palazzo presidenziale. 
Il presidente precedente, Laurent Gbagbo, si era rifiutato di lasciargli il posto trascinando il Paese nella guerra civile appena conclusa grazie all'intervento armato della Francia. Intanto in Tunisia il 17 dicembre, il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si era dato fuoco per protestare contro le impossibili condizioni di vita del Paese innescando la rivoluzione che avrebbe portato, sulla scia del profumo dei gelsomini, non solo alla dipartita del dittatore Ben Ali, ma anche all'incredibile ondata di rovesciamenti di regime che sta cambiando per sempre il volto politico del Nord Africa e del vicino Medio Oriente.
E mentre l'Occidente osservava tra l'allarmato e lo speranzoso gli africani in armi, decidendo più tardi di aiutare i libici nella loro lotta contro il dittatore Gheddafi, la Cina dichiarava con soddisfazione di essere diventata il principale partner commerciale del Continente nero, avendo superato sia gli Usa sia l'Europa, con uno scambio di 115 miliardi di dollari, in crescita del 43 per cento rispetto al 2009, e investimenti diretti complessivi per 9 miliardi di dollari (erano mezzo miliardo del 2003). Si è trattato di una vera e propria dichiarazione di guerra. E non tanto per l'ammontare della cifra, ancora molto bassa rispetto al volume di scambi commerciali che sia la Cina che gli Stati Uniti e l'Europa intrattengono con il resto del mondo, ma per il segnale che questo primato ottenuto da Pechino nel giro di un decennio lancia alle vecchie e meno vecchie potenze coloniali: l'Africa è diventata il Far West della geopolitica mondiale. In quello che una volta era il cortile d'Europa e un luogo di approvvigionamento secondario per l'America, nelle prossime due decadi si scontreranno le ambizioni economiche, politiche, e ben presto anche militari, di Usa e Cina, con la Francia e l'Inghilterra, e in misura di gran lunga inferiore l'Italia, nel ruolo di attori non protagonisti.

La presenza della Cina in Africa non è nuova. Tra gli anni Sessanta e Novanta ha combattuto qui la sua lotta - prima puramente ideologica e con gli anni soprattutto politica - contro Taiwan. Il patto era semplice: aiuti economici in cambio del riconoscimento di "una sola Cina". Ma nella scorsa decade l'interesse per l'Africa è andato via via crescendo fino a trasformarsi in una forma di neo colonizzazione gialla dettata dalla sempre più urgente necessità di petrolio (che rappresenta il 70 per cento dell'interscambio cinese in Africa), legno e materie prime per alimentare il prodigioso sviluppo economico interno. Essendo l'ultima arrivata, per farsi spazio la Cina ha cominciato a sedurre le élite politiche nere con gli ormai celebri "pacchetti all-inclusive": una miniera, una diga, una centrale idroelettrica, una ferrovia e pure un'autostrada, il tutto sovvenzionato da una banca di Stato cinese che sarà poi pagata in petrolio, alluminio, coltan o legno che sia. Oltre 35 paesi africani hanno accordi finanziari con la Cina, anche se il 70 per cento dei finanziamenti va ad Angola, Nigeria, Sudan e Etiopia. Naturalmente anche i contanti sono inclusi negli accordi, sia sotto forma di cancellazione dei debiti che di vere e proprie sovvenzioni delle cui modalità di utilizzo, a differenza della Banca mondiale, nessuno chiederà mai conto al dittatore di turno.
E così i cinesi si sono rimboccati le maniche. Stanno costruendo una ferrovia di 1.800 chilometri in Zambia, la contestatissima diga di Meroe in Sudan e in Etiopia quella di Gibe III che, al completamento, sarà la seconda diga dell'Africa subsahariana (a spese degli abitanti del lago Turkana in Kenya); tirano su città intere in Libia e in Angola e stendono autostrade in Nigeria e Kenya; lanciano il primo satellite per le telecomunicazioni in Nigeria; inviano Huawei e Zte, le principali telecom cinesi, a distribuire linee telefoniche mobili in decine di paesi; portano farmaci antimalaria in Uganda e retrovirali contro l'Aids in Tanzania. Sono solo alcuni esempi. Il ministero degli Esteri cinese stima che siano circa 500 le infrastrutture costruite o in via di costruzione con l'appoggio cinese, e che ormai siano un milione i cinesi in Africa. Il loro numero è destinato a moltiplicarsi rapidamente. "Abbiamo 600 fiumi in Cina di cui 400 morti a causa dell'inquinamento", spiega uno scienziato cinese nel libro "Cinafrica" dei giornalisti francesi Serge Michel e Michel Beuret: "Non ne usciremo a meno di inviare 300 milioni di cinesi in Africa".

Ad arrivare ogni anno sono contadini, operai ma anche manager e imprenditori improvvisati in cerca del nuovo Eldorado. Lavorano sette giorni su sette e quasi sempre tutti, dirigenti compresi, vivono sul luogo di lavoro: la priorità è mantenere le spese basse e conquistare i mercati. Non imparano le lingue, non si mescolano con i locali. Il paese che li accoglie non è importante: per tutti ciò che conta è la possibilità di guadagnare. Così la Cina sfrutta a suo favore il caos politico di paesi devastati da decenni di guerra come il Congo, non si tira indietro alle richieste di fornitura di armi, e non si fa scrupoli nel trattare con regimi ritenuti inaccettabili non solo dagli Usa e dall'Europa, ma perfino dall'India. In Zimbabwe il dittatore Robert Mugabe è tenuto in piedi soprattutto con aiuti di Pechino, mentre il Sudan di Omar Hasan al Bashir, il presidente accusato di genocidio, è il terzo partner commerciale della Cina, dopo Angola e Sudafrica. Ma è anche l'unico che le permette di estrarre petrolio utilizzando installazioni proprie, visto che perfino in Angola, altro Paese cruciale, Pechino è costretta a comprarlo, a differenze di società occidentali come la Texaco, in loco fin dagli anni Settanta.
L'espansionismo cinese non è sfuggito agli Stati Uniti che dieci anni fa hanno preso a monitorare attentamente i movimenti del rivale sul Continente Nero. La Cina è vista come "un concorrente economico aggressivo e pernicioso, privo di morale". Johnnie Carson, vice responsabile per gli affari africani, spiega in un documento segreto pubblicato da WikiLeaks che "la Cina non è in Africa per motivi altruistici", ma"solo per la Cina". E aggiunge: "Una seconda ragione è per assicurarsi all'Onu i voti della nazioni africane". 
Proprio in funzione di contenimento cinese già nel 2006 David Rumsfeld cominciò a pensare alla formazione di un'unica regia di azione per tutta l'Africa. Nel 2008 il presidente George W. Bush diede l'assenso alla costituzione di Africom, il comando con a capo il generale William Kip Ward, il quartiere generale a Stoccarda, in Germania, e la base aerea a Sigonella. E' responsabile dell'intero continente, ad eccezione dell'Egitto. Tre sono le macro aree che a cui fa più attenzione: il Corno d'Africa per la sua instabilità politica e le infiltrazioni terroristiche; la preziosa regione orientale dei grandi laghi che fornisce risorse idriche a gran parte del Continente; e il Golfo di Guinea, considerata oggi la regione più interessante del mondo perché potrebbe sostituire nel lungo periodo il golfo Persico e rappresentare un quarto delle importazioni Usa di petrolio. Secondo il think tank Center for International Policy nel giro di un decennio, se il prezzo del greggio si mantiene al di sopra dei 50 dollari al barile, i paesi del golfo potrebbero incassare circa mille miliardi di dollari, ovvero il doppio di tutti gli aiuti occidentali degli ultimi cinquant'anni.

Se, petrolio a parte, fino alla campanella d'allarme suonata dall'avanzata cinese, le imprese americane erano poco attive in Africa, relegandola a un ruolo di vittima, dipendente da sussidi stranieri, in questi ultimi anni gli investimenti, crisi permettendo, stanno aumentando: dall'agroalimentare Cargill alla californiana Tetratech per la gestione delle risorse idriche; dalla diga in Uganda della Sithe Global che dovrebbe essere ultimata l'anno prossimo all'impianto per l'estrazione del metano sul lago Kivu, al confine tra il Rwanda e la Repubblica Democratica del Congo, della Contour Global. 
Come gli americani, anche i francesi non avevano nessuna intenzione di rafforzare il proprio impegno economico in Africa. Nessun paese africano è tra i loro primi 20 fornitori e solo l'Algeria è tra i primi 20 clienti. Ma la situazione sta cambiando rapidamente, complici i cinesi da una parte e dall'altra le ambizioni politiche di un Sarkozy che ha scommesso sull'interventismo africano per riscuotere successi in politica interna. A partire dalla Costa d'Avorio. Non è un mistero che la Cina sia stata in questi ultimi anni la grande protettrice di Gbabo, che ha difeso all'Onu, a cui ha garantito un lauto stipendio e concesso l'annullamento del 40 per cento del debito bilaterale (18 milioni di euro) in cambio di contratti petroliferi per Sinopec. L'intervento francese in Costa d'Avorio cambia le carte in tavola. Ouattara non solo è un vecchio alleato del Burkina Faso, uno dei quattro paesi africani che ancora riconoscono Taiwan come la legittima Cina (e che è a sua volta sull'orlo di una guerra civile), ma è anche amico personale di Martin Bouygues, il boss di Bouygues, il colosso francese attivo nei settori delle costruzioni e dell'energia, direttamente minacciato dalla concorrenza cinese.

La Costa d'Avorio non è l'unico paese africano dove Pechino rischierà di avere vita più difficile. I francesi sono in prima linea nell'intervento in Libia insieme agli americani e agli inglesi e saranno loro, non i cinesi, a trattare le condizione di un futuro governo e ad accapararsi generosi contratti petroliferi ed edili. Più in generale, tutta l'instabilità in Nord Africa sta mettendo a rischio gli investimenti cinesi, costringendo la nuova potenza a "sporcarsi le mani" con la politica e a scontrarsi direttamente con gli interessi occidentali. 
E se per i grandi del mondo i safari africani diventeranno sempre più complicati, per la prima volta potrebbero essere i governi locali, sedotti da più pretendenti, ad avere una chance di sviluppo in più. A condizione che stabiliscano regole del gioco favorevoli alla loro gente.

Federica Bianchi - L'Espresso 26/04/11

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